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martedì 8 maggio 2012

La consistenza delle parole (non solo) nella pubblicità

Intervista a Giuseppe Mazza, 06 aprile 2012
Giuseppe Mazza è fondatore e direttore di Tita, www.titamilano.com agenzia pubblicitaria; è direttore responsabile della rivista trimestrale “Bill. Un'idea di pubblicità”, www.billmagazine.com  

Anche la pubblicità può dire la verità e rispettare l'intelligenza del consumatore. L'esperienza e la passione di Giuseppe Mazza, che avrebbe voluto fare l'edicolante e invece ha fondato un'agenzia pubblicitaria e una rivista che promuove un'idea di pubblicità che rispetti il consumatore

La copertina del primo numero di "Bill"
Che lavoro fai? Me lo descrivi?
Sono un pubblicitario ma non faccio più solo il creativo, ho fondato una mia agenzia, insieme a Sonia Rocchi e quindi sono entrato anche in altre logiche, della gestione del personale, dei clienti, del funzionamento della macchina, il rapporto con le banche, anche se in fondo è possibile interpretare anche questa cosa come forma di creatività allargata.
Nel lavoro del pubblicitario la creatività normalmente la eserciti nell'invenzione di slogan o nel concepimento di una campagna, mentre ora è un atto pieno di immaginazione costruire la relazione con le persone che sono insieme a te o il modo di rapportarsi ai clienti. Ora mi confronto con una ricchezza di esperienza, una gamma espressiva maggiore, ad esempio scegliere quali clienti prendere. In Tita cerchiamo di non essere bottega dove si entra e si prende, non vogliamo fare prodotti standard. Ci possono essere esigenze, espresse dal cliente che magari non ci convincono, e quindi di volta in volta dobbiamo scegliere. Se ad esempio un marchio prestigioso, noto, un'istituzione, ha chiesto di fare produzione qualitativamente scadente, dal punto di vista formale, noi abbiamo pensato che non fosse all'altezza di quell'istituzione, abbiamo pensato che li avrebbe danneggiati; ci abbiamo rimesso dei soldi, è stata una decisione sofferta ma è forte quello che ti impedisce di farlo, ti rendi conto che con il tuo lavoro stai costruendo e se non costruisci è brutto.

Qual è la cosa più importante nel tuo lavoro, che non devi assolutamente trascurare?
La consistenza di quello che stai facendo. Da persona che lavora con le parole, avverto di avere come compito storico quello di ridare consistenza alle parole. In comunicazione si avverte questa smaterializzazione, le parole sono disponibili a dire la stessa cosa e il suo contrario e lo vedi in generale, nel marketing politico ad esempio. In questi anni assistiamo a eserciti in armi che vanno in missione di pace, che fanno pensare a Orwell. È come se le parole perdessero di consistenza, allora le puoi spostare dai loro oggetti e appiccicarle dove ti pare. E questo succede secondo me in un mondo che va in rovina. Per il mestiere che faccio io il compito deve essere ridare consistenza alle parole: quando si parla di fiducia che non sia una parola spesa a caso, come la passione o altre parole abusate in pubblicità. Così come consistente deve essere quello che fai, anche se gonfi un preventivo finisci per far deperire il significato delle parole. La consistenza è un senso di realtà, quindi gli slogan, quello che diciamo, quello che scriviamo, deve essere preciso e legato alla realtà vera. Un imprenditore quello che produce è fiducia, verso chi lavora per te, verso i clienti, la nostra missione aziendale è ridare consistenza alle parole.
Mi vengono in mente delle pubblicità brutte con parole insensate. Per esempio, la campagna Mastercard, è bella, ritaglia un ruolo giusto per la marca, ci sono cose che non hanno prezzo, ci dicono, ed è vero, per tutto il resto c'è Mastercard. Si propongono cioè come un servizio a tua disposizione, che può darti una mano quando hai bisogno. Altro discorso per quell'assicurazione che porta il sole nella tua vita e questo non è vero, non è sostenibile. Questo da vita a un linguaggio di potere, paternalista, falso, che non ha legame con me e mi dice che non lo vuole neanche avere, non si è impegnato a cercare. La pubblicità italiana è piena di discorsi irreali, finti, che non hanno mai sentimento autentico, perché è espressione di potere che si rivolge al potenziale consumatore considerandolo sempre un po' coglione, e questo spiega anche la quantità di figa, che in realtà rispecchia la cultura della classe dirigente.
Noi la realtà cerchiamo invece di utilizzarla, non la neghiamo. Ad esempio nella campagna che abbiamo realizzato per una società che fa recruiting, abbiamo scherzato sull'abitudine italiana di cercare le raccomandazioni, per noi quella società è diventata un modo alternativo alla raccomandazione. Quando fai entrare il linguaggio pubblicitario dentro le cose che succedono stai cercando di dargli consistenza.

Come è cambiato il tuo lavoro negli ultimi 3 anni?
È cambiato nel senso del maggior controllo. Ho sempre cercato di avere sempre più controllo, anche quando ero impiegato in agenzia a un certo punto ho chiesto di andare a tutte le presentazioni, perché quando gli account tornavano con i commenti dei clienti io non riuscivo a capire cosa fosse successo e quello che i clienti volevano. E lì comincia la palla di neve del controllo, che non vuol dire che come l'hai fatta esce, ma che sai in ogni momento del processo quello che sta succedendo, non sei alienato. In Tita il creativo è il titolare del processo, e dunque deve confrontarsi con il cliente. Non so perché altrove non succede, magari i manager hanno paura che si freghino i clienti, oppure li ritengono immaturi. Mentre io ho pensato che possano essere maturi. Mi piace che chi lavora qua lo sia, è anche questo un modo per appropriarsi della consistenza, il controllo. Anche perché altrimenti la gente si scazza e se ne va se non li fai stare dentro i processi.
Un'altra cosa che facciamo qua, a proposito di controllo, è accompagnare le proposte inviate per posta elettronica con dei creative rational, documenti nei quali la proposta che il cliente vedrà è argomentata in ogni aspetto. Questo perché ci siamo accorti che una volta inviato via mail, il lavoro veniva inoltrato e si sganciava dal processo, così ognuno poteva permettersi di fare qualsiasi osservazione, magari senza rendersi troppo conto delle motivazioni che avevano portato a fare quella proposta. Il rational è un testo che accompagna, presenta quello che abbiamo fatto, le ipotesi scartate, insomma ricostruisce un quadro. Ogni creativo qui da noi deve scrivere il proprio rational, deve argomentare. Nelle agenzie normalmente lo fanno gli account, ma l'account non è un creativo, non è lui che ha pensato quelle proposte, o che ha deciso di scartare le altre. Qui i custodi della coerenza sono i creativi. Ora in Tita siamo in 14, ci sono 4 account, 8 creativi, poi io e Sonia.
Ancora sul controllo, una cosa che trovo bella, in Tita, è che le riunioni non possono durare più di 20 minuti. È una convinzione condivisa che se una riunione dura di più è perché non è stata preparata bene, allora tutto viene riversato nel pentolone, si giocano psicodrammi, rispondono ad altre esigenze. Se invece ognuno arriva con suo report non è faticoso. Per noi il tempo è una variabile importante, in un'agenzia piccola come la nostra ci sono pochi tempi morti, mentre in una grande, quando hai finito un lavoro per qualche giorno prendi un po' di respiro, prima che arrivi un nuovo lavoro.
Infine, una cosa che vorrei venisse copiata da tutti, la possibilità di prenotarsi dal sito per un colloquio. Io ogni mattina alle 9 faccio un colloquio con chiunque lo chieda prenotandosi direttamente dal sito www.titamilano.com. È una cosa che avevo cominciato con un criterio di risarcimento, perché mi ricordo la fatica che ho fatto per avere dei colloqui quando sono arrivato a Milano, e non voglio ripagare con la stessa moneta. Adesso per me è anche fonte di aggiornamento professionale, perché parlo con persone che non avrei mai incontrato altrimenti. Per le aziende è difficile incontrare un'umanità diversa. Per esempio l'associazione che riunisce i creativi italiani organizza ogni anno un incontro con ragazzi che vogliono entrare in questo mondo e io ho detto no, perché sono contrario al fatto che incontrare i direttori creativi prenda la forma dell'evento, che ristabilisce una forma gerarchica, come se ognuno di loro dovesse pensare “che culo c'è un giorno in cui posso incontrarli”. Per le aziende quelli importanti sono i candidati, non viceversa.
Un'altra scelta che abbiamo fatto in Tita è che le persone con cui lavoriamo, tranne rari casi, sono tutti dipendenti. Il percorso è identico per tutti, uno stage pagato; un contratto a termine e l'assunzione. Questo perché vogliamo che chi lavora con noi condivida un approccio.

È cambiato qualcosa nel tuo atteggiamento verso il lavoro da quando è nata Tita? Perché?
Da quando nel 2008 abbiamo fondato Tita sento di più la responsabilità. Prima era incentrato su di me, dovevo dimostrare di saperlo fare e bene. Sono stati anni in cui non ho visto il mondo, ero totalmente riverso sull'obiettivo espressivo, dovevo fare belle cose. Ora penso che è sempre più connesso alla comunità nella quale vivo.
Quando parlo di responsabilità non parlo di pagare gli stipendi, anche se ovviamente devo farlo. Parlo del fatto che un'azienda non è un'isola, è un'organizzazione nella quale puoi rispecchiare la tua idea di società, ciò che è giusto e ingiusto. Io avverto il senso di responsabilità perché sento ampie le conseguenze di quello che faccio.
La responsabilità è l'idea che il fine non è semplicemente il profitto, quello è un elemento strutturale. Qualunque azienda viene aperta perché le persone possano vivere bene con il proprio lavoro e perché questo avvenga è giusto e normale che faccia profitto, ma questo non è il fine che giustifica i mezzi, insieme al profitto tuo ci deve essere profitto altrui: se la comunicazione è migliore c'è meno inquinamento cognitivo; se la gente è pagata il giusto, restituisce senso al lavoro che fa.
Questo è uno dei motivi per cui abbiamo deciso di fare “Bill”, la rivista. L'obiettivo è provare a restituire un'idea di comunicazione diversa.

Cosa non sopporti del tuo lavoro?
A livello interpersonale la fiducia mal riposta. Penso alla delega, quando arrivano brutte notizie accuso il colpo, lì per lì lo vivo come un affronto, poi mi riprendo, mi rendo conto che magari ci sono sforzi che non ho percepito, relativizzo.
Rispetto al linguaggio pubblicitario non sopporto le parole private del senso, i discorsi senza conseguenze, dire cose che non fai ad esempio, come quelle agenzie che invitano i clienti ad avere coraggio ma poi sono loro non ne hanno. Non sono fanatico della coerenza, ma mi pare che a volte si esageri un po'. Ad esempio tra i pubblicitari c'è chi parla di non accettare gare senza rimborso e io pur non proclamando ho sempre cercato di non farle, dopodiché scopro che quelli che proclamavano hanno accettato di fare quella stessa gara che io mi sono rifiutato di fare. Si fa un grande danno così, stai mandando un messaggio di stacco tra parole e fatti, crei irrealtà.

Qual è la cosa più importante che ritieni di avere imparato nel tuo mestiere?
Mi ha strutturato come persona: la cosa più bella è che ti fa incarnare nel modo più assoluto che il mondo è plurale, è fatto di una quantità di esigenze, bisogni diversi. Eppoi è un mestiere che ricomincia ogni volta, perché le esigenze cui dare forma sempre diverse. Sì, magari è vero che ogni anno rifai la campagna in cui proponi il 25% di sconto sui libri, ma un anno è allegro dirlo, l'anno della crisi è completamente diverso, stai dicendo cose diverse. Questo mestiere è una moltiplicazione continua di variabili e credo che mi abbia insegnato a essere meno assolutista e dogmatico, a rimettere in discussione le cose.

Quando dici che hai fatto bene il tuo lavoro? (un esempio)
Relativamente al momento attuale stiamo facendo buon lavoro se non ci confondiamo con il paesaggio, offriamo una possibilità in più e diversa a chi lavora in pubblicità e alle aziende, manteniamo la credibilità per dire che si può fare diversamente.
La più irresistibile strategia è la verità”, dice Sir John Hegarty sul n.1 di “Bill” ed è quello che facciamo con la rivista. C'entra in maniera profonda con la buona pubblicità, che è il contrario della truffa, è quando si instaura rapporto autentico.

Che lavoro sognavi di fare da bambino?
Alle amiche di mia madre rispondevo sempre l'eremita, perché me ne volevo stare per i fatti miei, ma vedevo che sconcertava quando lo dicevo, allora poi mi è venuto di dire il giornalaio così mi leggevo tutti i fumetti. Del tempo in cui volevo fare il giornalaio mi è rimasta la curiosità onnivora. Dell'eremita non lo so, niente apparentemente, visto il lavoro che faccio. E anche nella rivista sto includendo persone che mi piacciono, non è solo il mondo di Tita che lo esprime, sono uno che cerca di raggiungere, toccare, ma è vero che poi non vado ai colloqui di tutti i direttori creativi...

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