Intervista a Giuseppe
Mazza, 06 aprile 2012
Giuseppe Mazza è fondatore
e direttore di Tita, www.titamilano.com agenzia pubblicitaria; è direttore
responsabile della rivista trimestrale “Bill. Un'idea di
pubblicità”, www.billmagazine.com
Anche la pubblicità può dire la verità e rispettare l'intelligenza del consumatore. L'esperienza e la passione di Giuseppe Mazza, che avrebbe voluto fare l'edicolante e invece ha fondato un'agenzia pubblicitaria e una rivista che promuove un'idea di pubblicità che rispetti il consumatore
Sono
un pubblicitario ma non faccio più solo il creativo, ho fondato una
mia agenzia, insieme a Sonia Rocchi e quindi sono entrato anche in
altre logiche, della gestione del personale, dei clienti, del
funzionamento della macchina, il rapporto con le banche, anche se in
fondo è possibile interpretare anche questa cosa come forma di
creatività allargata.
Nel
lavoro del pubblicitario la creatività normalmente la eserciti
nell'invenzione di slogan o nel concepimento di una campagna, mentre
ora è un atto pieno di immaginazione costruire la relazione con le
persone che sono insieme a te o il modo di rapportarsi ai clienti.
Ora mi confronto con una ricchezza di esperienza, una gamma
espressiva maggiore, ad esempio scegliere quali clienti prendere. In Tita cerchiamo di non essere bottega dove si entra e si
prende, non vogliamo fare prodotti standard. Ci possono essere
esigenze, espresse dal cliente che magari non ci convincono, e quindi
di volta in volta dobbiamo scegliere. Se ad esempio un marchio
prestigioso,
noto, un'istituzione, ha chiesto di fare produzione qualitativamente
scadente, dal punto di vista formale, noi abbiamo pensato che non
fosse all'altezza di quell'istituzione, abbiamo pensato che li
avrebbe danneggiati; ci abbiamo rimesso dei soldi, è stata una
decisione sofferta ma è forte quello che ti impedisce di farlo, ti
rendi conto che con il tuo lavoro stai costruendo e se non costruisci
è brutto.
Qual
è la cosa più importante nel tuo lavoro, che non devi assolutamente
trascurare?
La
consistenza di quello che stai facendo. Da persona che lavora con le
parole, avverto di avere come compito storico quello di ridare
consistenza alle parole. In comunicazione si avverte questa
smaterializzazione, le parole sono disponibili a dire la stessa cosa
e il suo contrario e lo vedi in generale, nel marketing politico ad
esempio. In questi anni assistiamo a eserciti in armi che vanno in
missione di pace, che fanno pensare a Orwell. È come se le parole
perdessero di consistenza, allora le puoi spostare dai loro oggetti e
appiccicarle dove ti pare. E questo succede secondo me in un mondo
che va in rovina. Per il mestiere che faccio io il compito deve
essere ridare consistenza alle parole: quando si parla di fiducia che
non sia una parola spesa a caso, come la passione o altre parole
abusate in pubblicità. Così come consistente deve essere quello che
fai, anche se gonfi un preventivo finisci per far deperire il
significato delle parole. La consistenza è un senso di realtà,
quindi gli slogan, quello che diciamo, quello che scriviamo, deve
essere preciso e legato alla realtà vera. Un imprenditore quello che
produce è fiducia, verso chi lavora per te, verso i clienti, la
nostra missione aziendale è ridare consistenza alle parole.
Mi
vengono in mente delle pubblicità brutte con parole insensate. Per
esempio, la campagna Mastercard, è bella, ritaglia un ruolo giusto
per la marca, ci sono cose che non hanno prezzo, ci dicono, ed è
vero, per tutto il resto c'è Mastercard. Si propongono cioè come un
servizio a tua disposizione, che può darti una mano quando hai
bisogno. Altro discorso per quell'assicurazione che porta il sole
nella tua vita e questo non è vero, non è sostenibile. Questo da
vita a un linguaggio di potere, paternalista, falso, che non ha
legame con me e mi dice che non lo vuole neanche avere, non si è
impegnato a cercare. La pubblicità italiana è piena di discorsi
irreali, finti, che non hanno mai sentimento autentico, perché è
espressione di potere che si rivolge al potenziale consumatore
considerandolo sempre un po' coglione, e questo spiega anche la
quantità di figa, che in realtà rispecchia la cultura della classe
dirigente.
Noi
la realtà cerchiamo invece di utilizzarla, non la neghiamo. Ad
esempio nella campagna che abbiamo realizzato per una società che fa
recruiting, abbiamo scherzato sull'abitudine italiana di cercare le
raccomandazioni, per noi quella società è diventata un modo
alternativo alla raccomandazione. Quando fai entrare il linguaggio
pubblicitario dentro le cose che succedono stai cercando di dargli
consistenza.
Come
è cambiato il tuo lavoro negli ultimi 3 anni?
È
cambiato nel senso del maggior controllo. Ho sempre cercato di avere
sempre più controllo, anche quando ero impiegato in agenzia a un
certo punto ho chiesto di andare a tutte le presentazioni, perché
quando gli account tornavano con i commenti dei clienti io non
riuscivo a capire cosa fosse successo e quello che i clienti
volevano. E lì comincia la palla di neve del controllo, che non vuol
dire che come l'hai fatta esce, ma che sai in ogni momento del
processo quello che sta succedendo, non sei alienato. In Tita il
creativo è il titolare del processo, e dunque deve confrontarsi con
il cliente. Non so perché altrove non succede, magari i manager
hanno paura che si freghino i clienti, oppure li ritengono immaturi.
Mentre io ho pensato che possano essere maturi. Mi piace che chi
lavora qua lo sia, è anche questo un modo per appropriarsi della
consistenza, il controllo. Anche perché altrimenti la gente si
scazza e se ne va se non li fai stare dentro i processi.
Un'altra
cosa che facciamo qua, a proposito di controllo, è accompagnare le
proposte inviate per posta elettronica con dei creative
rational,
documenti nei quali la proposta che il cliente vedrà è argomentata
in ogni aspetto. Questo perché ci siamo accorti che una volta
inviato via mail, il lavoro veniva inoltrato e si sganciava dal
processo, così ognuno poteva permettersi di fare qualsiasi
osservazione, magari senza rendersi troppo conto delle motivazioni
che avevano portato a fare quella proposta. Il rational
è
un testo che accompagna, presenta quello che abbiamo fatto, le
ipotesi scartate, insomma ricostruisce un quadro. Ogni creativo qui
da noi deve scrivere il proprio rational,
deve argomentare. Nelle agenzie normalmente lo fanno gli account, ma
l'account non è un creativo, non è lui che ha pensato quelle
proposte, o che ha deciso di scartare le altre. Qui i custodi della
coerenza sono i creativi. Ora in
Tita siamo in 14, ci sono 4 account, 8 creativi, poi io e Sonia.
Ancora
sul controllo, una cosa che trovo bella, in Tita, è che le riunioni
non possono durare più di 20 minuti. È una convinzione condivisa
che se una riunione dura di più è perché non è stata preparata
bene, allora tutto viene riversato nel pentolone, si giocano
psicodrammi, rispondono ad altre esigenze. Se invece ognuno arriva
con suo report non è faticoso. Per noi il tempo è una variabile
importante, in un'agenzia piccola come la nostra ci sono pochi tempi
morti, mentre in una grande, quando hai finito un lavoro per qualche
giorno prendi un po' di respiro, prima che arrivi un nuovo lavoro.
Infine,
una cosa che vorrei venisse copiata da tutti, la possibilità di
prenotarsi dal sito per un colloquio. Io ogni mattina alle 9 faccio
un colloquio con chiunque lo chieda prenotandosi direttamente dal
sito www.titamilano.com.
È una cosa che avevo cominciato con un criterio di risarcimento,
perché mi ricordo la fatica che ho fatto per avere dei colloqui
quando sono arrivato a Milano, e non voglio ripagare con la stessa
moneta. Adesso per me è anche fonte di aggiornamento professionale,
perché parlo con persone che non avrei mai incontrato altrimenti.
Per le aziende è difficile incontrare un'umanità diversa. Per
esempio l'associazione che riunisce i creativi italiani organizza
ogni anno un incontro con ragazzi che vogliono entrare in questo
mondo e io ho detto no, perché sono contrario al fatto che
incontrare i direttori creativi prenda la forma dell'evento, che
ristabilisce una forma gerarchica, come se ognuno di loro dovesse
pensare “che culo c'è un giorno in cui posso incontrarli”. Per
le aziende quelli importanti sono i candidati, non viceversa.
Un'altra
scelta che abbiamo fatto in Tita è che le persone con cui lavoriamo,
tranne rari casi, sono tutti dipendenti. Il percorso è identico per
tutti, uno stage pagato; un contratto a termine e l'assunzione.
Questo perché vogliamo che chi lavora con noi condivida un
approccio.
È
cambiato qualcosa nel tuo atteggiamento verso il lavoro da quando è
nata Tita? Perché?
Da
quando nel 2008 abbiamo fondato Tita sento di più la responsabilità.
Prima era incentrato su di me, dovevo dimostrare di saperlo fare e
bene. Sono stati anni in cui non ho visto il mondo, ero totalmente
riverso sull'obiettivo espressivo, dovevo fare belle cose. Ora penso
che è sempre più connesso alla comunità nella quale vivo.
Quando
parlo di responsabilità non parlo di pagare gli stipendi, anche se
ovviamente devo farlo. Parlo del fatto che un'azienda non è
un'isola, è un'organizzazione nella quale puoi rispecchiare la tua idea
di società, ciò che è giusto e ingiusto. Io avverto il senso di
responsabilità perché sento ampie le conseguenze di quello che
faccio.
La
responsabilità è l'idea che il fine non è semplicemente il
profitto, quello è un elemento strutturale. Qualunque azienda viene
aperta perché le persone possano vivere bene con il proprio lavoro e
perché questo avvenga è giusto e normale che faccia profitto, ma
questo non è il fine che giustifica i mezzi, insieme al profitto tuo
ci deve essere profitto altrui: se la comunicazione è migliore c'è
meno inquinamento cognitivo; se la gente è pagata il giusto,
restituisce senso al lavoro che fa.
Questo
è uno dei motivi per cui abbiamo deciso di fare “Bill”, la
rivista. L'obiettivo è provare a restituire un'idea di comunicazione
diversa.
Cosa
non sopporti del tuo lavoro?
A
livello interpersonale la fiducia mal riposta. Penso alla delega,
quando arrivano brutte notizie accuso il colpo, lì per lì lo vivo
come un affronto, poi mi riprendo, mi rendo conto che magari ci sono
sforzi che non ho percepito, relativizzo.
Rispetto
al linguaggio pubblicitario non sopporto le parole private del senso,
i discorsi senza conseguenze, dire cose che non fai ad esempio, come
quelle agenzie che invitano i clienti ad avere coraggio ma poi sono
loro non ne hanno. Non sono fanatico della coerenza, ma mi pare che a
volte si esageri un po'. Ad esempio tra i pubblicitari c'è chi parla
di non accettare gare senza rimborso e io pur non proclamando ho
sempre cercato di non farle, dopodiché scopro che quelli che
proclamavano hanno accettato di fare quella stessa gara che io mi
sono rifiutato di fare. Si fa un grande danno così, stai mandando un
messaggio di stacco tra parole e fatti, crei irrealtà.
Qual
è la cosa più importante che ritieni di avere imparato nel tuo
mestiere?
Mi
ha strutturato come persona: la cosa più bella è che ti fa
incarnare nel modo più assoluto che il mondo è plurale, è fatto di
una quantità di esigenze, bisogni diversi. Eppoi è un mestiere che
ricomincia ogni volta, perché le esigenze cui dare forma sempre
diverse. Sì, magari è vero che ogni anno rifai la campagna in cui
proponi il 25% di sconto sui libri, ma un anno è allegro dirlo,
l'anno della crisi è completamente diverso, stai dicendo cose
diverse. Questo mestiere è una moltiplicazione continua di variabili
e credo che mi abbia insegnato a essere meno assolutista e dogmatico,
a rimettere in discussione le cose.
Quando
dici che hai fatto bene il tuo lavoro? (un esempio)
Relativamente
al momento attuale stiamo facendo buon lavoro se non ci confondiamo
con il paesaggio, offriamo una possibilità in più e diversa a chi
lavora in pubblicità e alle aziende, manteniamo la credibilità per
dire che si può fare diversamente.
“La
più irresistibile strategia è la verità”, dice Sir John Hegarty
sul n.1 di “Bill” ed è quello che facciamo con la rivista.
C'entra in maniera profonda con la buona pubblicità, che è il
contrario della truffa, è quando si instaura rapporto autentico.
Che
lavoro sognavi di fare da bambino?
Alle
amiche di mia madre rispondevo sempre l'eremita, perché me ne volevo
stare per i fatti miei, ma vedevo che sconcertava quando lo dicevo,
allora poi mi è venuto di dire il giornalaio così mi leggevo tutti
i fumetti. Del tempo in cui volevo fare il giornalaio mi è rimasta
la curiosità onnivora. Dell'eremita non lo so, niente
apparentemente, visto il lavoro che faccio. E anche nella rivista sto
includendo persone che mi piacciono, non è solo il mondo di Tita che
lo esprime, sono uno che cerca di raggiungere, toccare, ma è vero
che poi non vado ai colloqui di tutti i direttori creativi...
Nessun commento:
Posta un commento
è uno spazio per dialogare, commentare, chiedere approfondimenti e chiarimenti